Fu proprio durante
“una notte in Italia” (a Genova in particolare) che cominciò a
prendere forma il progetto di questo disco; una notte d’inverno, una
delle tante passate a suonare jazz in qualche locale, con qualche
musicista. E anche una delle prime volte che mi capitò di suonare con
Massimiliano e Maurizio in trio. Dopo aver smesso di suonare (le due di
notte) cominciammo a far su i cavi, a smontare strumenti e
amplificatori; caricammo tutto sull’auto, come sempre, ma forse (o
almeno così mi piace ricordare) con in più un freddo “vento che sa
di lontano” che, prima ancora di prenderci la testa, ci sbuffò in
faccia impedendoci di sentire la stanchezza. Accanto al repertorio jazz
standard avevo, già da tempo, cominciato a inserire alcuni miei
arrangiamenti di canzoni d’autore italiane: un modo per suonare musica
improvvisata e fortemente incentrata sull’idioma afro-americano, a
partire però da materiale maggiormente diffuso e conosciuto nel nostro
paese come quello delle celeberrime canzoni in questione. In effetti
questo tipo di proposta fu molto bene accolta dal pubblico dei locali.
Anche quella serata andò bene e questo fu motivo di una moderata
soddisfazione che contribuì a tenerci svegli nonostante l’ora. Così
si decise di andare a bere qualche birra assieme. Quello fu il momento
in cui capii (o meglio ne ebbi la conferma perché lo capii già
suonando con loro) che Massimiliano e Maurizio non “eseguivano”
semplicemente questi arrangiamenti ma si “calavano” in essi (e
soprattutto nelle canzoni che suonavamo) con entusiasmo e partecipazione
emotiva e intellettuale. Ognuno di loro, insieme a me, reinterpretava
con la propria sensibilità canzoni (talvolta bellissime) che fanno
parte della nostra cultura come le nostre migliori letture e che evocano
ricordi e sensazioni ad esse legati. In altre parole ognuno di noi
pescava nel proprio profondo ciò che questi brani andavano a
sollecitare restituendo poi sentimenti, sensazioni e proposizioni sotto
forma di scenari musicali spesso assai suggestivi, un po’ come avvenne
quella notte (e molte altre volte ancora) parlando e apportando ciascuno
il proprio contributo critico e affettivo alla discussione di questo
repertorio. Mi convinsi che vi era qualcosa di “artistico” e non
solo di “professionistico” nel loro modo di approcciare queste
canzoni. Buttai lì l’idea di registrare alcuni di questi brani e,
riscontrando ancora una volta la loro generosa disponibilità, decisi -
dopo alcuni giorni - di rilanciare la cosa proponendo il disco che oggi,
a distanza di qualche mese, vediamo realizzato.
Gli arrangiamenti mescolano materiale melodico, armonico o ritmico,
talvolta trasfigurato e irriconoscibile, ad ampie suggestioni
jazzistiche. Il tutto serve da trampolino di lancio ai tanti spazi
improvvisati che caratterizzano questo lavoro. In effetti definirei
questo un disco di jazz sostanzialmente per due motivi. Il primo è che
si tratta di un disco suonato da musicisti di jazz, che pronunciano,
articolano, fraseggiano secondo il linguaggio jazz; un linguaggio che
nei decenni ha sedimentato molti strati ma che, in misura più o meno
evidente, non può prescindere dall’assimilazione e dalla
rielaborazione del modello bop. Il secondo motivo consiste nel fatto che
l’improvvisazione ha in questi brani uno spazio preponderante e questa
è a mio parere un’altra caratteristica irrinunciabile della musica
jazz. Non ho lavorato, in fase di scrittura, sui dischi né tantomeno
sulle trascrizioni dei brani. Ho letto e riletto i testi e, per quanto
riguarda la musica, ho lasciato che affiorasse ciò che era sepolto da
anni nella mia memoria. Si tratta infatti di canzoni che ho ascoltato
molto in tempi passati e che hanno lasciato delle tracce nel mio
profondo: far emergere quelle tracce senza il condizionamento di
riascolti freschi era per me l’unico modo per scrivere qualcosa di
mio.
Infine
vorrei soffermarmi brevemente sul titolo di questo disco “Una Notte in
Italia”, preso a prestito da uno dei brani che lo compongono. La notte
rappresenta un antro, un rifugio entro il quale nascondersi ai fantasmi
del giorno. Alla magia della notte, al raccoglimento che essa può dare
è dedicata molta musica, molta letteratura e in generale molta arte. Il
buio e il silenzio della notte acuiscono una sensibilità speciale che
si stempera nel giorno e nei suoi troppi obblighi materiali. Di notte
forse è meno difficile il “sentire” profondo, quel “sentire”
che l’artista ha il compito di rivelare. Penso ai versi della poetessa
e amica Erika Dagnino: ”A tratti trattengo la brezza / Ebbra di breve
abbandono / Ti tocco toccando la notte / Sotterro il silenzio del
giorno” (AAVV.Sogni e Desideri. Aletti Editore). Ne assaporo l’aspra
e intensa musicalità, lo scenario intriso di buio e di solitudine.
Versi come questi e altri ancora sono certo fonte di meditazione e
ispirazione per questo nostro lavoro. Il racconto di questo disco si
articola in vari episodi e, non di rado, indugia in meditazioni ed
inquietudini “notturne” e per questo ci è sembrato appropriato il
titolo che abbiamo scelto.
Stefano Pastor
Ciò
che mi affascina molto della musica di Paolo Conte (artista con cui ho
avuto la fortuna di collaborare nel disco Aguaplano) è la estrema cura
del suono, sia da un punto di vista strettamente musicale, sia per ciò
che riguarda i testi. In “Genova per noi” in particolare mi
colpiscono da un lato un’immagine musicale dal sapore latino americano
d’altri tempi (tempi in cui era ancora forte il flusso migratorio
proprio da Genova verso paesi come l’Argentina, quasi a sottintendere
il ruolo storico di Genova come porta che apre a nuovi mondi) e
dall’altro il susseguirsi introspettivo di immagini suggestive,
affidate a un canto che per lunghi tratti, rimanendo inchiodato ad una
sola nota, evidenzia la pronuncia della lingua parlata e afferma con
forza la valenza poetica del testo. Partendo da queste considerazioni ho
mantenuto l’ambientazione sudamericana del ritmo (anche se, rispetto
al tango argentino dell’originale, ci spostiamo a sfumature di samba
influenzate da aspetti ritmici del nordest del Brasile). Il tema è in
parte “testuale” e in parte una costruzione poliritmica e
poliarmonica fondata su una nota o, come all’inizio, su tre note, a
richiamare idealmente il concetto, che questa canzone mi suggerisce, di
“suono poetico” affrancato e nuovamente mescolato da e con il
“suono musicale”. La forma è “AABA” e dopo un mio solo
improvvisato (che segue l’esposizione del tema), Massimiliano e
Maurizio si dividono tre quarti dell’ultimo chorus prima che la
riesposizione del tema dell’ultima “A” chiuda il brano.
La struggente “Canzone di
Marinella” nella nostra versione si apre con un partecipato solo
di batteria. Improvvisamente si apre l’esposizione del tema fedele
all’originale ma completamente riarmonizzato. I soli si snodano su di
un aperta situazione modale in 3/4: dopo un inizio mio c’è un duetto
batteria-violino giocato sul ritmo e sulla libertà armonica. Poi, con
l’ingresso del basso, riprendo il mio solo conducendo alla
riesposizione del tema. La riarmonizzazione così spigolosa, accostata
alla linea melodica dolce e regolare, crea nelle mie intenzioni un
contrasto forte conferendo al tema quell’astrazione e quel dolore che
nella canzone sono assicuarati dal testo.
Anche
in “Vedrai Vedrai”,
uno dei brani più belli scritti da Luigi Tenco, si parla di speranza
“disperata” e cioè della condizione disperante dell’ineluttabilità
del destino. Il ricordo di immagini televisive che ritraggono un Tenco
completamente immerso in questo canto tormentoso, solo e chino sul
pianoforte mi tocca profondamente. Il solo di basso, libero, che
riecheggia soltanto nel finale le note della strofa, così come lo ha
creato Massimiliano, mi restituisce molto di quella immagine così
coinvolgente. La griglia del ritornello è l’ambiente in cui mi muovo
durante un solo sentito, che confluisce in una inquieta ma anche
liberatoria esposizione del tema.
Di Eugenio Finardi mi conquistò molti anni fa la carica rivoluzionaria
entusiastica che passava con intensità anche dai dischi (non parliamo
poi dei concerti in un epoca, la fine degli anni ’70, in cui la
ricchezza di fermenti politici giovanili caratterizzava e, spesso,
motivava il popolo dei concerti). Ad aumentare notevolmente la forza
d’impatto della sua musica era questo bel groove funk-rock che
prendeva vita dall’azione di musicisti di grande valore, quelli del
circuito della piccola e coraggiosa etichetta milanese denominata CRAMPS.
A questo proposito si pensi alle collaborazioni con Finardi di alcuni
componenti del mitico gruppo degli AREA o con Crisalide, formazione che,
tanto per citare un nome, contava sul poderoso basso di Stefano Cerri.
“Extraterrestre” comincia con un solo del violino basato
sulla strofa della canzone. Il solo sfocia in una situazione “free”
e senza tempo; poi, dopo una serie di accordi che fanno da interludio si
arriva al refrain dove un solo di Massimiliano si trasforma in
“corale” e culmina con la breve e volutamente incerta esposizione
del tema. La conclusione così sospesa mi è stata suggerita dal testo
che ci parla della inevitabile condizione di eterna insoddisfazione
dell’uomo.
L’incertezza del futuro ma anche la speranza nel domani sono i temi
forse più rilevanti di “Una Notte in Italia” e sono temi
appena sfiorati. Il resto sono i dettagli di una notte sbandata e colma
di inquietudine, di un taglio di luna, di un vento che sa di lontano, di
un “sentire” profondo che permea tutta la canzone. Ivano Fossati è
un poeta e attraverso immagini fugaci parla di cose profonde. Il
racconto di questa notte è così leggero e allo stesso tempo così
profondo da commuovere. Proprio come le magiche suggestioni della sua
musica, fatta quasi di niente eppure così pregnante. È il momento di
maggiore riflessione ed è il brano che dà il titolo al nostro lavoro.
Nell’arrangiarlo ho badato molto alla forza evocativa che mi
trasmette; nell’eseguirlo abbiamo provato a cantare, con tutto il
cuore, tutte le notti sbandate della nostra vita.
In un disco di jazz non può mancare almeno uno “standard” e noi lo
abbiamo individuato in uno dei pochissimi brani di autori italiani ad
essere adottato dal repertorio jazz standard appunto. Si tratta di “Estate”
di Bruno Martino. Ne abbiamo reso una versione piuttosto classica (a
parte la sezione “B” su un tempo afro-cuban), caratterizzata da un
tempo fast. Alla fine del brano, prima della riesposizione del tema,
Massimiliano e Maurizio si dividono le 56 battute del chorus in scambi
di 8+6.
Ne “La Donna Cannone”
ho scritto un tema che contiene frammenti della stanza originale della
bella canzone di Francesco De Gregori, mantenendone ed estendendone
l’armonia. Sulla griglia del ritornello si sviluppa un solo del
violino su un obbligato del basso, mentre la batteria si muove con
libertà su un tempo rock. Il solo culmina sul refrain che
nell’originale ha una conclusione lirica e struggente che mi fa
pensare alla negazione della speranza, spazzata via dalla certezza della
morte. Quel particolare momento della canzone mi toglie letteralmente il
fiato e ho deciso di sottolinearlo con uno svuotamento improvviso del
suono, senza alterare alcunché in un quadro così efficace come quello
della canzone originale.
“La
Gatta”
non è forse la migliore canzone di Gino Paoli, nonostante sia un brano
celeberrimo. Il fatto che alcuni autori, in grado di scrivere canzoni
straordinarie (e Paoli è uno di questi), riescano a cogliere enormi
successi anche con le canzoni più semplici mi suggerisce che si tratta
di autori di enormi capacità. Penso ad esempio a Chico Buarque de
Hollanda, autore di decine di canzoni-capolavoro che, negli anni ’60,
ebbe uno straordinario successo in Brasile (ma anche in Italia come si
ricorderà) vincendo un concorso televisivo con la canzone “A
Banda”. Bella senz’altro ma non la punta di diamante della suo
produzione. Così Paoli, l’autore di canzoni d’amore nervose e
sofisticate sa parlare alla gente anche con la semplicità del
linguaggio. Una semplicità che mi ha suggerito un adattamento vagamente
“afro” quanto decisamente modale e poliritmico del brano, con un
tempo di 6/8 che si scontra con il 4/4 del basso e del violino. Dopo il
solo mio e la riesposizione c’è spazio per Maurizio che inventa
figure su un ostinato di basso e violino all’unisono.
“Quanno
Chiove”
è un classico della canzone italiana, uno dei tanti esempi della bella
vena compositiva di Pino Daniele. Ci è piaciuta l’idea di darne una
versione asciutta e rigorosa, incentrata sul suono soffuso delle
spazzole, una sorta di omaggio discreto e rispettoso a quella sottile
nuance malinconica che attraversa il brano originale. Tra il tema
iniziale e la riesposizione finale si possono ascoltare i soli del
violino e del basso.
Infine
“Alberto”,
un brano autobiografico carico di “saudade” e di brasilianità
scritto alla fine degli anni ’70 da Alberto Camerini. Alberto, che ha
vissuto l’infanzia a Sao Paulo, ricorda le atmosfere magiche e
totalizzanti di un paese così intenso, complesso e pieno di umana
tolleranza. Ma in entrambi i primi due dischi (indimenticabili) -
Cenerentola e il Pane Quotidiano (dal sound decisamente elettrico) e
Gelato Metropolitano (acustico e dal sapore vagamente trobadorico) –
si respira un’atmosfera tutta brasiliana che risente delle influenze
del tropicalismo (mi impressiona sempre la vicinanza tra la vocalità di
Camerini e quella del giovane Caetano Veloso). Anche quei dischi erano
usciti per l’etichetta CRAMPS e anche i contenuti di quei dischi
avevano una carica rivoluzionaria dirompente. A partire da queste
considerazioni quindi mi è sembrato piuttosto naturale l’accostamento
a un samba classico che fu, negli anni ’60, inno della Scuola di Samba
di Portela: “Recado”
di Paulinho da Viola e Casquinha. Il samba è la musica del sincretismo
religioso e culturale, dei contrasti violenti e delle
vertiginose identificazioni. È musica che porta i retaggi dei ritmi
africani, delle melodie europee (riconducibili alla tradizione
operistica italiana del ‘700) e delle suggestioni dalla cultura india.
È musica che esprime l’insopprimibile e insopportabile felicità del
carnevale. Della “grande illusione del carnevale” come recita un
verso della canzone “A Felicidade” di Vinicius De Morais e Tom Jobim,
dell’illusione di riscatto da un quotidiano abisso di miseria e
ristrettezze. È musica che esprime in modo struggente l’irrisolvibile
contraddittorietà della vita. Non a caso uno dei personaggi letterari
che più esprimono questa essenza profonda della “brasilianità”,
Vadinho (Donna Flor e i Suoi Due Mariti. Jorge Amado. Ed. Garzanti,
muore d’infarto ancora giovanissimo, una mattina di carnevale,
ballando un samba vestito da baiana, in un drammatico e al tempo stesso
leggero intreccio di vita e morte; disperazione e allegria; sacro e
grottesco. Credo che l’impressionante profondità del samba sta
proprio nel rappresentare, per sua stessa natura, indissolubilmente il
tutto e, scrivendo, accarezzo con la memoria i versi di “Samba da Bençao”,
scritta da Vinicius con Baden Powel: “E’ melhor ser alegre que ser
triste / Alegria è a melhor coisa que existe / E’ assim como a luz no
coraçao / Mas pra fazer um samba, um samba com beleza / E’ preciso um
bocado di tristeza / Senao nao se faz um samba nao”. Tristezza
nell’allegria e allegria nella tristezza. Per acuire tale contrasto (o
per annullarlo?) ho scelto di trasformare la dolce nostalgia della
canzone di Camerini in urlo interiore che non si placa ma anzi si
intensifica dolorosamente nel samba sfrenato e dilagante.
Stefano
Pastor
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