Stefano Pastor

 

Una Notte in Italia  

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Fu proprio durante “una notte in Italia” (a Genova in particolare) che cominciò a prendere forma il progetto di questo disco; una notte d’inverno, una delle tante passate a suonare jazz in qualche locale, con qualche musicista. E anche una delle prime volte che mi capitò di suonare con Massimiliano e Maurizio in trio. Dopo aver smesso di suonare (le due di notte) cominciammo a far su i cavi, a smontare strumenti e amplificatori; caricammo tutto sull’auto, come sempre, ma forse (o almeno così mi piace ricordare) con in più un freddo “vento che sa di lontano” che, prima ancora di prenderci la testa, ci sbuffò in faccia impedendoci di sentire la stanchezza. Accanto al repertorio jazz standard avevo, già da tempo, cominciato a inserire alcuni miei arrangiamenti di canzoni d’autore italiane: un modo per suonare musica improvvisata e fortemente incentrata sull’idioma afro-americano, a partire però da materiale maggiormente diffuso e conosciuto nel nostro paese come quello delle celeberrime canzoni in questione. In effetti questo tipo di proposta fu molto bene accolta dal pubblico dei locali. Anche quella serata andò bene e questo fu motivo di una moderata soddisfazione che contribuì a tenerci svegli nonostante l’ora. Così si decise di andare a bere qualche birra assieme. Quello fu il momento in cui capii (o meglio ne ebbi la conferma perché lo capii già suonando con loro) che Massimiliano e Maurizio non “eseguivano” semplicemente questi arrangiamenti ma si “calavano” in essi (e soprattutto nelle canzoni che suonavamo) con entusiasmo e partecipazione emotiva e intellettuale. Ognuno di loro, insieme a me, reinterpretava con la propria sensibilità canzoni (talvolta bellissime) che fanno parte della nostra cultura come le nostre migliori letture e che evocano ricordi e sensazioni ad esse legati. In altre parole ognuno di noi pescava nel proprio profondo ciò che questi brani andavano a sollecitare restituendo poi sentimenti, sensazioni e proposizioni sotto forma di scenari musicali spesso assai suggestivi, un po’ come avvenne quella notte (e molte altre volte ancora) parlando e apportando ciascuno il proprio contributo critico e affettivo alla discussione di questo repertorio. Mi convinsi che vi era qualcosa di “artistico” e non solo di “professionistico” nel loro modo di approcciare queste canzoni. Buttai lì l’idea di registrare alcuni di questi brani e, riscontrando ancora una volta la loro generosa disponibilità, decisi - dopo alcuni giorni - di rilanciare la cosa proponendo il disco che oggi, a distanza di qualche mese, vediamo realizzato.

  Gli arrangiamenti mescolano materiale melodico, armonico o ritmico, talvolta trasfigurato e irriconoscibile, ad ampie suggestioni jazzistiche. Il tutto serve da trampolino di lancio ai tanti spazi improvvisati che caratterizzano questo lavoro. In effetti definirei questo un disco di jazz sostanzialmente per due motivi. Il primo è che si tratta di un disco suonato da musicisti di jazz, che pronunciano, articolano, fraseggiano secondo il linguaggio jazz; un linguaggio che nei decenni ha sedimentato molti strati ma che, in misura più o meno evidente, non può prescindere dall’assimilazione e dalla rielaborazione del modello bop. Il secondo motivo consiste nel fatto che l’improvvisazione ha in questi brani uno spazio preponderante e questa è a mio parere un’altra caratteristica irrinunciabile della musica jazz. Non ho lavorato, in fase di scrittura, sui dischi né tantomeno sulle trascrizioni dei brani. Ho letto e riletto i testi e, per quanto riguarda la musica, ho lasciato che affiorasse ciò che era sepolto da anni nella mia memoria. Si tratta infatti di canzoni che ho ascoltato molto in tempi passati e che hanno lasciato delle tracce nel mio profondo: far emergere quelle tracce senza il condizionamento di riascolti freschi era per me l’unico modo per scrivere qualcosa di mio.

 Infine vorrei soffermarmi brevemente sul titolo di questo disco “Una Notte in Italia”, preso a prestito da uno dei brani che lo compongono. La notte rappresenta un antro, un rifugio entro il quale nascondersi ai fantasmi del giorno. Alla magia della notte, al raccoglimento che essa può dare è dedicata molta musica, molta letteratura e in generale molta arte. Il buio e il silenzio della notte acuiscono una sensibilità speciale che si stempera nel giorno e nei suoi troppi obblighi materiali. Di notte forse è meno difficile il “sentire” profondo, quel “sentire” che l’artista ha il compito di rivelare. Penso ai versi della poetessa e amica Erika Dagnino: ”A tratti trattengo la brezza / Ebbra di breve abbandono / Ti tocco toccando la notte / Sotterro il silenzio del giorno” (AAVV.Sogni e Desideri. Aletti Editore). Ne assaporo l’aspra e intensa musicalità, lo scenario intriso di buio e di solitudine. Versi come questi e altri ancora sono certo fonte di meditazione e ispirazione per questo nostro lavoro. Il racconto di questo disco si articola in vari episodi e, non di rado, indugia in meditazioni ed inquietudini “notturne” e per questo ci è sembrato appropriato il titolo che abbiamo scelto.

  Stefano Pastor

 

Ciò che mi affascina molto della musica di Paolo Conte (artista con cui ho avuto la fortuna di collaborare nel disco Aguaplano) è la estrema cura del suono, sia da un punto di vista strettamente musicale, sia per ciò che riguarda i testi. In “Genova per noi” in particolare mi colpiscono da un lato un’immagine musicale dal sapore latino americano d’altri tempi (tempi in cui era ancora forte il flusso migratorio proprio da Genova verso paesi come l’Argentina, quasi a sottintendere il ruolo storico di Genova come porta che apre a nuovi mondi) e dall’altro il susseguirsi introspettivo di immagini suggestive, affidate a un canto che per lunghi tratti, rimanendo inchiodato ad una sola nota, evidenzia la pronuncia della lingua parlata e afferma con forza la valenza poetica del testo. Partendo da queste considerazioni ho mantenuto l’ambientazione sudamericana del ritmo (anche se, rispetto al tango argentino dell’originale, ci spostiamo a sfumature di samba influenzate da aspetti ritmici del nordest del Brasile). Il tema è in parte “testuale” e in parte una costruzione poliritmica e poliarmonica fondata su una nota o, come all’inizio, su tre note, a richiamare idealmente il concetto, che questa canzone mi suggerisce, di “suono poetico” affrancato e nuovamente mescolato da e con il “suono musicale”. La forma è “AABA” e dopo un mio solo improvvisato (che segue l’esposizione del tema), Massimiliano e Maurizio si dividono tre quarti dell’ultimo chorus prima che la riesposizione del tema dell’ultima “A” chiuda il brano.

  La struggente “Canzone di Marinella” nella nostra versione si apre con un partecipato solo di batteria. Improvvisamente si apre l’esposizione del tema fedele all’originale ma completamente riarmonizzato. I soli si snodano su di un aperta situazione modale in 3/4: dopo un inizio mio c’è un duetto batteria-violino giocato sul ritmo e sulla libertà armonica. Poi, con l’ingresso del basso, riprendo il mio solo conducendo alla riesposizione del tema. La riarmonizzazione così spigolosa, accostata alla linea melodica dolce e regolare, crea nelle mie intenzioni un contrasto forte conferendo al tema quell’astrazione e quel dolore che nella canzone sono assicuarati dal testo.

  Anche in “Vedrai Vedrai”, uno dei brani più belli scritti da Luigi Tenco, si parla di speranza “disperata” e cioè della condizione disperante dell’ineluttabilità del destino. Il ricordo di immagini televisive che ritraggono un Tenco completamente immerso in questo canto tormentoso, solo e chino sul pianoforte mi tocca profondamente. Il solo di basso, libero, che riecheggia soltanto nel finale le note della strofa, così come lo ha creato Massimiliano, mi restituisce molto di quella immagine così coinvolgente. La griglia del ritornello è l’ambiente in cui mi muovo durante un solo sentito, che confluisce in una inquieta ma anche liberatoria esposizione del tema.

  Di Eugenio Finardi mi conquistò molti anni fa la carica rivoluzionaria entusiastica che passava con intensità anche dai dischi (non parliamo poi dei concerti in un epoca, la fine degli anni ’70, in cui la ricchezza di fermenti politici giovanili caratterizzava e, spesso, motivava il popolo dei concerti). Ad aumentare notevolmente la forza d’impatto della sua musica era questo bel groove funk-rock che prendeva vita dall’azione di musicisti di grande valore, quelli del circuito della piccola e coraggiosa etichetta milanese denominata CRAMPS. A questo proposito si pensi alle collaborazioni con Finardi di alcuni componenti del mitico gruppo degli AREA o con Crisalide, formazione che, tanto per citare un nome, contava sul poderoso basso di Stefano Cerri. “Extraterrestre” comincia con un solo del violino basato sulla strofa della canzone. Il solo sfocia in una situazione “free” e senza tempo; poi, dopo una serie di accordi che fanno da interludio si arriva al refrain dove un solo di Massimiliano si trasforma in “corale” e culmina con la breve e volutamente incerta esposizione del tema. La conclusione così sospesa mi è stata suggerita dal testo che ci parla della inevitabile condizione di eterna insoddisfazione dell’uomo.

  L’incertezza del futuro ma anche la speranza nel domani sono i temi forse più rilevanti di “Una Notte in Italia” e sono temi appena sfiorati. Il resto sono i dettagli di una notte sbandata e colma di inquietudine, di un taglio di luna, di un vento che sa di lontano, di un “sentire” profondo che permea tutta la canzone. Ivano Fossati è un poeta e attraverso immagini fugaci parla di cose profonde. Il racconto di questa notte è così leggero e allo stesso tempo così profondo da commuovere. Proprio come le magiche suggestioni della sua musica, fatta quasi di niente eppure così pregnante. È il momento di maggiore riflessione ed è il brano che dà il titolo al nostro lavoro. Nell’arrangiarlo ho badato molto alla forza evocativa che mi trasmette; nell’eseguirlo abbiamo provato a cantare, con tutto il cuore, tutte le notti sbandate della nostra vita.

  In un disco di jazz non può mancare almeno uno “standard” e noi lo abbiamo individuato in uno dei pochissimi brani di autori italiani ad essere adottato dal repertorio jazz standard appunto. Si tratta di “Estate” di Bruno Martino. Ne abbiamo reso una versione piuttosto classica (a parte la sezione “B” su un tempo afro-cuban), caratterizzata da un tempo fast. Alla fine del brano, prima della riesposizione del tema, Massimiliano e Maurizio si dividono le 56 battute del chorus in scambi di 8+6.

  Ne “La Donna Cannone” ho scritto un tema che contiene frammenti della stanza originale della bella canzone di Francesco De Gregori, mantenendone ed estendendone l’armonia. Sulla griglia del ritornello si sviluppa un solo del violino su un obbligato del basso, mentre la batteria si muove con libertà su un tempo rock. Il solo culmina sul refrain che nell’originale ha una conclusione lirica e struggente che mi fa pensare alla negazione della speranza, spazzata via dalla certezza della morte. Quel particolare momento della canzone mi toglie letteralmente il fiato e ho deciso di sottolinearlo con uno svuotamento improvviso del suono, senza alterare alcunché in un quadro così efficace come quello della canzone originale.

  La Gatta” non è forse la migliore canzone di Gino Paoli, nonostante sia un brano celeberrimo. Il fatto che alcuni autori, in grado di scrivere canzoni straordinarie (e Paoli è uno di questi), riescano a cogliere enormi successi anche con le canzoni più semplici mi suggerisce che si tratta di autori di enormi capacità. Penso ad esempio a Chico Buarque de Hollanda, autore di decine di canzoni-capolavoro che, negli anni ’60, ebbe uno straordinario successo in Brasile (ma anche in Italia come si ricorderà) vincendo un concorso televisivo con la canzone “A Banda”. Bella senz’altro ma non la punta di diamante della suo produzione. Così Paoli, l’autore di canzoni d’amore nervose e sofisticate sa parlare alla gente anche con la semplicità del linguaggio. Una semplicità che mi ha suggerito un adattamento vagamente “afro” quanto decisamente modale e poliritmico del brano, con un tempo di 6/8 che si scontra con il 4/4 del basso e del violino. Dopo il solo mio e la riesposizione c’è spazio per Maurizio che inventa figure su un ostinato di basso e violino all’unisono.

  Quanno Chiove” è un classico della canzone italiana, uno dei tanti esempi della bella vena compositiva di Pino Daniele. Ci è piaciuta l’idea di darne una versione asciutta e rigorosa, incentrata sul suono soffuso delle spazzole, una sorta di omaggio discreto e rispettoso a quella sottile nuance malinconica che attraversa il brano originale. Tra il tema iniziale e la riesposizione finale si possono ascoltare i soli del violino e del basso.

  Infine “Alberto”, un brano autobiografico carico di “saudade” e di brasilianità scritto alla fine degli anni ’70 da Alberto Camerini. Alberto, che ha vissuto l’infanzia a Sao Paulo, ricorda le atmosfere magiche e totalizzanti di un paese così intenso, complesso e pieno di umana tolleranza. Ma in entrambi i primi due dischi (indimenticabili) - Cenerentola e il Pane Quotidiano (dal sound decisamente elettrico) e Gelato Metropolitano (acustico e dal sapore vagamente trobadorico) – si respira un’atmosfera tutta brasiliana che risente delle influenze del tropicalismo (mi impressiona sempre la vicinanza tra la vocalità di Camerini e quella del giovane Caetano Veloso). Anche quei dischi erano usciti per l’etichetta CRAMPS e anche i contenuti di quei dischi avevano una carica rivoluzionaria dirompente. A partire da queste considerazioni quindi mi è sembrato piuttosto naturale l’accostamento a un samba classico che fu, negli anni ’60, inno della Scuola di Samba di Portela: “Recado” di Paulinho da Viola e Casquinha. Il samba è la musica del sincretismo religioso e culturale, dei contrasti violenti e delle vertiginose identificazioni. È musica che porta i retaggi dei ritmi africani, delle melodie europee (riconducibili alla tradizione operistica italiana del ‘700) e delle suggestioni dalla cultura india. È musica che esprime l’insopprimibile e insopportabile felicità del carnevale. Della “grande illusione del carnevale” come recita un verso della canzone “A Felicidade” di Vinicius De Morais e Tom Jobim, dell’illusione di riscatto da un quotidiano abisso di miseria e ristrettezze. È musica che esprime in modo struggente l’irrisolvibile contraddittorietà della vita. Non a caso uno dei personaggi letterari che più esprimono questa essenza profonda della “brasilianità”, Vadinho (Donna Flor e i Suoi Due Mariti. Jorge Amado. Ed. Garzanti, muore d’infarto ancora giovanissimo, una mattina di carnevale, ballando un samba vestito da baiana, in un drammatico e al tempo stesso leggero intreccio di vita e morte; disperazione e allegria; sacro e grottesco. Credo che l’impressionante profondità del samba sta proprio nel rappresentare, per sua stessa natura, indissolubilmente il tutto e, scrivendo, accarezzo con la memoria i versi di “Samba da Bençao”, scritta da Vinicius con Baden Powel: “E’ melhor ser alegre que ser triste / Alegria è a melhor coisa que existe / E’ assim como a luz no coraçao / Mas pra fazer um samba, um samba com beleza / E’ preciso um bocado di tristeza / Senao nao se faz um samba nao”. Tristezza nell’allegria e allegria nella tristezza. Per acuire tale contrasto (o per annullarlo?) ho scelto di trasformare la dolce nostalgia della canzone di Camerini in urlo interiore che non si placa ma anzi si intensifica dolorosamente nel samba sfrenato e dilagante.

Stefano Pastor